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domenica 18 agosto 2013

Chaumont e Bardonnèche, quando la Valsusa era francese

di Claudio Gorlier per lastampa.it


Una mattina, esattamente 300 anni or sono, i miei antenati di Rollieres, alta valle di Susa, si svegliarono e scoprirono di non essere più francesi del Delfinato. Grazie al trattato di Utrecht, del 12 luglio, la valle di Susa (e la val Chisone) erano passate al fresco re Vittorio Amedeo di Savoia.  
Qui salta fuori una prima curiosità: la vicenda dei toponimi, ovviamente francesi. Per motivi tuttora discussi, in valle di Susa soltanto tre vennero italianizzati nel corso del secolo: Chiomonte (Chaumont), Bardonecchia (Bardonnèche) e Cesana (Cézanne). Tra l’altro, nell’ancora Cézanne Vittorio Alfieri trascorse un inverno, come narra nella Vita. In parallelo, il Cluzon divenne Chisone, Pragelas Pragelato, e Fenestrelles perdette la s finale. Con un criterio del tutto irrazionale il fascismo italianizzò una serie di località: Oulx (Ulzio), Salbertrand (Salabertano), Sauze (Salice) che recuperarono l’originale nel dopoguerra. 

I vecchi toponimi  
Per vostra curiosità, posso chiarirvi la matrice di toponimi che vigorosamente resistono. Champlas du Col, Champlas Janvier si rifanno al vecchio francese a dignificare «campo» e alla loro posizione. In quanto a Champlas Seguin, pare che si tratti di una antica variante di Suivant, seguente, data la sua posizione e la sua nascita. Volete altro? Thures deriva dal celtico Thor, porta, mentre la Dora si riconduce ancora al celtico Duria, corso d’acqua. Secondo una vecchia tradizione locale, la Dora e la Durance, che nascono sullo stesso altipiano del Monginevro, prima di discendere si scambiano ciascuna una battuta. «Moi», dice la Dora, «je vais féconder l’Italie», e la Durance replica: «Moi je vais ramage (devastare) la France». 

La II guerra mondiale  
Ma veniamo alla storia recente. Alla fine della Seconda guerra mondiale, la Francia gollista rivendica una risistemazione dalla frontiera con l’Italia. Per ciò che riguarda la valle di Susa, vorrebbe uno spostamento almeno fino al colle di Sestriere. Nasce una organizzazione clandestina, finanziata e controllata appunto dalla Francia. Si chiama «Rassemblent des anciens Dauphinois», riferendosi alla originale appartenenza di quelle valli. Io, ragazzo, e mio padre riceviamo una tessera in bianco, di ignota ma ovvia origine; senonché carabinieri e polizia identificano gli animatori, e li arrestano.  

Il «no» degli Usa  
Gli Stati Uniti scoraggiarono perentoriamente la Francia dalle sue aspirazioni. Da un lato, lo spostamento avrebbero aperto la strada verso la pianura padana; dall’altro, esisteva il timore che il partito comunista francese, raggiunti i vertici, potesse sfruttare la situazione. Così, la Francia dovette accontentarsi di una modifica territoriale di proporzioni sostanzialmente simboliche. Una riguardava la valle stretta a ridosso di Bardonecchia, addirittura priva di collegamenti stradali efficaci con la Francia. L’altra aveva un valore storico non indifferente, ma nulla più. Mi riferisco al monte Chaberton, fino alla guerra il più alto forte del mondo. Ma, purtroppo, le strutture del forte erano ormai obsolete, e allora nel giugno del 1940, una batteria francese, piazzata sul fondo valle, colpì il forte e lo mise fuori combattimento. Sopravvivono i resti delle torri del forte, e lo Chaberton è oggetto di tranquille ascensioni e competizioni sportive, specie ciclistiche. 
Non dimentichiamo, però, il marchio francese nelle valli torinesi. Intanto, gli splendidi forti di Fenestrelle e di Exilles (toponimo intatto) e poi la raffinata architettura religiosa. Se vi capita, visitate la chiesa di Bousson, e il caratteristico santuario di San Restituto, tra Rollieres e Sauze di Cesana. Quel santo è del tutto immaginario, e si chiamava, originariamente, Réstitué. Ma il monumento è un autentico gioiello. 

La battaglia dell’Assietta  
Dunque, la Francia è rimasta nei suoi confini, ma può a buon diritto celebrare le pagine di storia lasciate nelle nostre valli, e che i nomi originari conservano o, si potrebbe sostenere, difendono. Rendiamole omaggio, anche se le impedimmo di rifarsi sconfiggendola sull’Assietta, e facciamolo, per cortesia, pronunciando giusti i nomi originari, che hanno resistito trecento anni. Se andate a sciare a Sestrières (si scrive proprio così) non dite che vi piace «il Sèstriere»... 

lunedì 31 ottobre 2011

Piazza Bodoni: 120 anni di Alfonso La Marmora


Il 25 ottobre del 1891 fu eretta la statua centrale di piazza Bodoni dedicata ad Alfonso Ferrero della Marmora.
Generale e Primo Ministro sia del Regno di Sardegna sia del neonato Regno d'Italia, La Marmora nacque a Torino nel 1804 e si trovò nella scomoda posizione di Primo Ministro quando, per effetto del trattato franco-italiano firmato dal suo predecessore Minghetti nel 1864, la capitale italiana dovette essere trasferita da Torino a Firenze (qui il racconto: parte I, parte II). A Firenze morì nel 1878 e fu sepolto a Biella, città dei La Marmora.

Il Municipio di Torino, dopo la morte del La Marmora il 5 gennaio 1878 lanciò una sottoscrizione, si raccolsero in un primo tempo 23.000 lire a cui si aggiunse il ricavato dalla vendita de Ricordi della giovinezza opera del La Marmora. L’incarico venne affidato al Grimaldi che si offrì di eseguirlo gratuitamente accontentandosi di un grande studio in via della Rocca, mentre Tommaso La Marmora, nipote del generale, si incaricò dell’esecuzione. Vi furono dibattiti per il luogo in cui porre la statua, dapprima si pensò alla piazza Maria Teresa dove il La Marmora abitò per lungo tempo, solo nel 1886 il Comune decise per la sistemazione in piazza Bodoni. I lavori non proseguivano e il nipote si assunse parte degli oneri finanziari, nel 1887 si iniziò la costruzione delle fondazioni e nel 1889 veniva fusa la statua nel Regio Arsenale di Torino ed inaugurata con fastosa cerimonia solo nell’ottobre 1891.  (www.piemonte-italia.eu)


sabato 13 febbraio 2010

Corso Porto Maurizio

Ringrazio gli amici torinesi di skyscrapercity per questa mappa della mia zona, Nizza-Millefonti, con tutti i bombardamenti subiti durante la Seconda Guerra Mondiale.

Come si vede dalla mappa, poco più a sud di via Millefonti doveva essere costruito un grande corso, corso Porto Maurizio, che doveva essere approssimativamente il prolungamento di quello che oggi è il sottopassaggio del lingotto da quella che ora è piazza Caduti sul lavoro. Dopo aver incrociato Corso Unità d'Italia, Corso Porto Maurizio avrebbe dovuto superare il Po in un ponte e proseguire sull'altra sponda del fiume.

Inoltre, qui si trova una variante al piano regolatore del 1920 con la cartina ben dettagliata della zona. Via Tibone ancora non esisteva, via Genova si chiamava via Demonte e via Sportono era privata.


Infine, quoto la spiegazione sull'origine del nome del Corso mai costruito:
[...] ai tempi Imperia non era ancora stata "unificata", ma era ancora divisa tra Oneglia, cui era dedicata la via che adesso si chiama via Biglieri, e Porto Maurizio.

domenica 24 gennaio 2010

Tutta colpa di Pietro Micca

Splendido articolo di W. Barberis su La Stampa.it di oggi:

Sono trascorsi più di cinquant’anni, da quando i primi immigrati dal Mezzogiorno venivano accolti a Torino dai commenti sarcastici dei piemontesi più gelosi del loro particolarismo: «Tutta colpa di Garibaldi», dicevano alcuni, con chiara allusione all’Unità nazionale e ai suoi personaggi chiave. «Tutta colpa di Pietro Micca», rincarava la dose chi pensava di poter dire che, se Torino fosse caduta in mano francese nel 1706, allora il problema si sarebbe risolto alla radice. Torino sarebbe diventata a sua volta Mezzogiorno, della Francia, ma questo era un pensiero che evidentemente non si affacciava. Rimaneva intatto, viceversa, il mito di Pietro Micca salvatore della patria piemontese; era ancora viva cioè la tradizione che voleva il minatore di Andorno decisivo nella soluzione dell’assedio francese a Torino nel 1706. A distanza di due secoli e mezzo.

È curioso che, all’epoca dei fatti, nessuno riconobbe la morte di Pietro Micca come fattore decisivo: tutti tributarono grandi meriti a Vittorio Amedeo II, duca di Savoia, che con accorte alleanze aveva saputo condurre il Piemonte sabaudo contro le armate di Luigi XIV; e celebrarono il principe Eugenio che, alla guida delle armate imperiali, era corso da Vienna a Torino giusto in tempo per evitare il peggio. Grandi lodi furono cantate ai Torinesi, che avevano saputo resistere alla stretta dell’assedio con ordine, pazienza, abnegazione e sacrificio personale: avevano provveduto all’ammasso dei generi alimentari senza sprechi, senza far lievitare i prezzi; avevano spesso pagato di tasca propria per far fronte ai costi immensi della guerra; avevano diligentemente evacuato le zone più esposte ai bombardamenti francesi, stringendosi nelle case più lontane dai tiri d’artiglieria; avevano accettato di formare una milizia cittadina in appoggio alla guarnigione a difesa della città. Insomma, si erano comportati esemplarmente. E poi si riconobbe la valentìa delle truppe piemontesi e la sagacia dei comandanti.

Pietro Micca, lì per lì, rimase fra coloro che persero la vita come prezzo inevitabile di una guerra; anche se, nella fattispecie, l’episodio di cui era stato protagonista aveva avuto qualche rilievo, impedendo a una avanguardia di francesi di penetrare nella cittadella della città. Ma nulla di più. Peraltro, nessuno parlava esplicitamente di sacrificio, perché era difficile stabilire - allora come ora - se Micca avesse acceso la miccia consapevole di rischiare la vita oppure confidando di potersi riparare in tempo. Incidente o martirio, imprudenza o eroismo, la morte di un minatore, di una «talpa», non fece grande notizia. In un assedio, la parte del leone la facevano loro, i minatori, che scavano indefessamente gallerie di mina e di contromina, allo scopo di farsi saltare in aria vicendevolmente: gli assedianti per aprirsi un varco di accesso alla città, gli assediati per respingere il nemico e fermarlo prima che arrivi ai bastioni.

Vi è anche da considerare che, nell’apparato militare sabaudo, di tradizioni robuste fin dai tempi di Emanuele Filiberto, aveva un certo peso un pregiudizio sfavorevole nei confronti degli artiglieri e di tutti coloro che svolgevano mansioni «operaie» collegate alla logistica, al genio, all’architettura e all’ingegneria militari. Queste persone, per quanto indossassero un’uniforme, era considerate accessorie e lontane dall’ethos cavalleresco così gelosamente interpretato dagli aristocratici che occupavano, di fatto, tutte le piazze di comando dell’armata piemontese. L’arte della guerra era l’unica attività che si confacesse a un nobile, mentre qualunque altra funzione che richiedesse studio o applicazione tecnica, per non dire manuale, era considerata ars mecanica, cioè qualcosa di molto lontano dalla nobiltà, da una condizione che si riteneva trasmessa col lignaggio, col sangue, irraggiungibile con altri mezzi. Dunque, anche all’interno dell’esercito vigeva una gerarchia secondo la quale la cavalleria era l’arma che più si confaceva alla condizione aristocratica, quindi seguivano le fanterie e in ultima posizione - possibilmente in ruoli difensivi, sugli spalti delle fortezze, ma senza alcun peso su un campo di battaglia - le artiglierie. Era una questione ideologica, profondamente radicata, esemplare della gerarchia sociale e culturale della società sabauda.

Nel corso del Settecento, pur sempre isolati e residuali nell’armata sabauda, gli artiglieri si sarebbero applicati a studi importanti di fisica e chimica, di architettura e ingegneria. Ma i nobili in uniforme non ne vollero sapere: di conseguenza, tutte quelle esperienze scientifiche rifluirono nella vita civile, fornendo conoscenze e macchinari alle prime industrie tessili e meccaniche piemontesi. Verso la fine del secolo, negli anni 80, quel nucleo di artiglieri, con la protezione di Vittorio Amedeo III, fondò l’Accademia delle Scienze di Torino, diventando un avamposto scientifico e tecnologico di prima grandezza in Europa. Ininfluente nell’esercito, si trasformò in un centro di ricerca assai utile per lo sviluppo del settore industriale.

Intanto, era passato un secolo dall’assedio di Torino e nuove prospettive politiche portavano il Piemonte a guardare all’Italia. Fu in quel giro d’anni che venne riscoperto Pietro Micca, considerato allora come l’antesignano di una resistenza alla Francia e un protomartire della causa risorgimentale italiana. Oltre che la figura esemplare di un gesto eroico che prescindeva dalla nobiltà dei natali. Questo ritratto popolare traversò indenne l’Ottocento e il Novecento. E oggi possiamo ben dire che non fu colpa, ma merito di Pietro Micca e dei suoi colleghi artiglieri, se Torino divenne il centro scientifico e tecnologico più importante d’Italia e la sede della più rinomata industria metalmeccanica italiana.

sabato 27 dicembre 2008

Torino, fine di una capitale part II

Savoia
Altrimenti detta il seguito della low-profile entry di ieri.
Per non lasciare le cose così a metà.



"L'addio a Torino non è indolore. Il ministro della Guerra, generale Alessandro Della Rovere, sdegnato, si dimette. Il re dà fuori di matto. Con Minghetti, che si dice sicuro di interpretare 'il sentimento degli italiani', piange e grida: "Che dirà Torino? Non è indegno rimeritarla di tanti sacrifici con un sacrificio ancora più crudele? E che importa a voialtri di Torino? Sono io che ne ho il cuore schiantato, io che ho sempre vissuto qui, che ho qui tutte le memorie d'infanzia, tutte le abitudini, i miei affetti". Uno sfogo in cui la parola chiave, come vedi, è voialtri. A cui di Torino non importava nulla, o peggio.



Invano il re manda a Parigi un altro generale, Luigi Menabrea, con una lettera per scongiurare Napoleone di lasciar perdere. Il 20 settembre la notizia è sui giornali. Il giorno successivo la folla si raduna in piazza Castello e in piazza San Carlo al grido di 'Torino o Roma'. La protesta è scambiata per rivolta. I generali piemontesi sono più sgomenti ancora della folla per il trasferimento della capitale, ma sono anche del tutto impreparati a fronteggiare un moto di piazza. Il 22 i cortei ripartono. Viene schierato l'esercito. Sparano per prime le reclute dei carabinieri, ma contro i fanti. I fanti rispondono. E' una strage. Il re non si fa vedere in città: "Non voglio essere testimone oculare del sangue versato nel paese che mi vide nascere" (è nato a Palazzo Carignano, a cento metri dal luogo dove il sangue è stato versato). Ne approfitta per chiedere a Minghetti di dimettersi. Il presidente del Consiglio chiede un ordine scritto. Lo ottiene subito.



A quel punto bisogna decidere cosa fare, e quale città scegliere come capitale. Vittorio Emanuele pensa di affidarsi ancora una volta a Rattazzi, ma l'amico si chiama fuori: non ha alcune intenzione di legare il suo nome al tradimento di Torino, pretende di annullare l'accordo con la Francia. Lamarmora invece accetta, ma il nuovo governo non sa neppure dove stabilirsi. Chi al posto di Torino propone Napoli. Chi Venezia, che non fa neppure parte del Regno. Risolve il re: "Andando a Firenze, dopo due anni, dopo cinque, anche dopo sei se volete, potremo dire addio ai fiorentini e andare a Roma; ma da Napoli non si esce; se vi andiamo, saremo costretti a rimanerci". Passeranno infatti sei anni prima di un altro, fatale 20 settembre. Ma gli incidenti a Torino non sono finiti. La sera del 30 gennaio, in una città tesa e straziata, è in programma a corte il gran ballo di Carnevale. Le carrozze degli aristocratici che tentano di avvicinarsi a palazzo vengono bersagliate di ortaggi e di sassi. Il ballo va deserto. Sentendosi a sua volta tradito, Vittorio Emanuele respinge le dimissioni del ministro dell'Interno Giovanni Lanza e parte per Firenze. (L'accoglienza dei fiorentini è entusiasta. Porge il saluto della città il venerando Gino Capponi, discendente di Piero. Un entusiasmo che svanirà in fretta, e i fiorentini non hanno ancora perdonato ai piemontesi gli sventramenti e in particolare la lapide di Piazza della Repubblica. In effetti l'accenno al 'secolare squallore' del centro storico di Firenze non è dei più felici; ma allora era parso così.) Una delegazione parte da Torino per implorare il perdono del sovrano. Vittorio Emanuele rifiuta di riceverla. Dopo lunghe insistenze, l'udienza è accordata. Il re si infuria un'altra volta, grida, rimprovera, poi scoppia ancora a piangere, perdona, è perdonato, e di Torino capitale non si parlerà più."



(Messori, Cazzullo, Il Mistero di Torino, Mondadori, 2004, p.451-452)



venerdì 26 dicembre 2008

Torino, fine di una capitale part I

Misterotorino
Riprendo a scrivere nel blog dopo una breve parentesi di qualche settimana non troppo felice (né tranquilla) della mia vita. E riprendo riportando qualche pagina del libro di Messori e Cazzullo, Il Mistero di Torino, uno dei libri più belli che abbia mai letto sulla nostra città e che mi è stato restituito proprio ieri da uno zio a cui lo avevo prestato. Un ottimo libro da gustare insieme ad una tazza di tè in questa bellissima giornata fredda e bianca.



Questa parte parla di Torino capitale d'Italia:



"Non era scritto da nessuna parte che Torino non potesse restare la capitale d'Italia. Eppure non solo questa possibilità apparirebbe oggi stravagante, ma neanche allora fu presa in seria considerazione.



Qual è il criterio per cui una città è capitale? Non quello demografico (altrimenti la capitale dell'Italia unificata sarebbe stata Napoli). Non quello economico (e allora sarebbe stata pronta Milano). Non quello storico-culturale (se Roma città a vocazione universale era stata il centro irradiante delle due anime della cultura europea - la cristiana e l'umanista -, la patria dela lingua e dell'arte italiana, la città che aveva imposto il suo modo di parlare, pensare, edificare, raffigurare l'uomo e le cose era ed è Firenze). In tutta Europa, laddove in età moderna, tra la fine del XV e la fine del XIX secolo, sono sorti gli Stati nazionali, è diventata capitale la città d'origine della dinastia regnante; che quasi mai coincide con il centro geografico del paese. (Solo Madrid è in mezzo alla Spagna. Parigi, Londra, Berlino sono in posizione eccentrica. Da quando il confine orientale tedesco è fissato sulla linea dell'Oder-Neisse, poi, Berlino è in un angolo non meno di Torino.) Tieni conto pure che, nell'Italia preunitaria, in un angolo Torino non era affatto. Era anzi al centro di un territorio-ponte tra le due grandi potenze europee, la francese e l'austriaca, un territorio che a occidente si spingeva oltre le Alpi con la Savoia (amputata per la ragione del nuovo Stato, quello italiano) e a oriente si affacciava sul Ticino, a pochi chilometri da Milano (all'avvio del Risorgimento Torino e Milano sono più o meno equivalenti per peso demografico, entrambe medie città europee di circa 140 mila abitanti). E' l'unificazione a collocare Torino in un angolo; neppure quello favorevole, dopo lo scoppio della guerra doganale con la Francia.



La capitale se ne andò nella stessa maniera con cui l'Italia sarebbe entrata nella prima guerra mondiale (e che avrebbe determinato in seguito molte altre cose), con un trucco di palazzo. Il Presidente del Consiglio Marco Minghetti si mosse alle spalle del re: trattò con Napoleone III il graduale ritiro delle truppe francesi da Roma, premessa del suo passaggio all'Italia; in cambio l'imperatore, che non aveva dimenticato i fischi del 1859, otteneva che il Regno si desse un'altra capitale, che non fosse né Roma né Torino. Vittorio Emanuele II seguiva i negoziati dal castello di Sommariva Perno, e fu informato della clausola il 13 agosto 1864, all'ultimo momento."



(Messori, Cazzullo, Il Mistero di Torino, Mondadori, 2004, p.450-451)



martedì 25 novembre 2008

Panorami di città

Panoramilogo
La settimana scorsa sono andato alla mostra "Panorami di città" presso l'Archivio di Stato di via Barbaroux 32 (ang. via Stampatori). La mostra è piccolina, ma estremamente interessante per un appassionato di Torino e di urbanistica come me - sono infatti esposte litografie e dipinti delle vedute di Torino a partire dal 1750 in poi.



Mi sono soffermato a lungo sui panorami della città dai quattro punti cardinali prese nei secoli scorsi. Incredibile quanto fosse diversa la città, ancora circondata da mura, e quanto di dimensioni ristrette! Praticamente solo quello che oggi definiamo come centro, allora era tutta la città.



In particolare sono stato contento di vedere per la prima volta una raffigurazione delle quattro porte di ingresso alla città. E poi vedere lo sviluppo urbanistico della città lungo i secoli è stato davvero interessante. Piazza Vittorio, per esempio, prima che vi costruissero l'attuale piazza, era un'esplanade verde semicircolare di viali alberati che la congiungevano con i viali che lungo le rive del Po portavano al parco del Valentino (allora considerato fuori città). L'esplanade era stata progettata e creata dai francesi nei vent'anni in cui ressero il governo di Torino. Proprio perché mi ha molto colpito, ho scattato due foto dell'esplanade di allora (perdonate la poor quality del mio cellulare, ma non avevo la macchina fotografica con me - cliccate sulle foto per ingrandirle):




Esplanade1



Esplanade2




E poi c'era questo dipinto raffigurante la Torino di allora realizzato da Matthias Seutter nel 1734, che recava anche precise indicazioni sulla nomea della città al tempo. In particolare, riporto questo pezzo in cui parla della città e dei suoi abitanti, che mi è piaciuto tantissimo e che secondo me è vero ancora adesso:



[Turin] est mise au nombre des plus propres villes d'Europe, et à la gloire de ses habitants que possèdent toutes les belles qualités des alemans, des italiens et des françois.



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