domenica 24 gennaio 2010

Tutta colpa di Pietro Micca

Splendido articolo di W. Barberis su La Stampa.it di oggi:

Sono trascorsi più di cinquant’anni, da quando i primi immigrati dal Mezzogiorno venivano accolti a Torino dai commenti sarcastici dei piemontesi più gelosi del loro particolarismo: «Tutta colpa di Garibaldi», dicevano alcuni, con chiara allusione all’Unità nazionale e ai suoi personaggi chiave. «Tutta colpa di Pietro Micca», rincarava la dose chi pensava di poter dire che, se Torino fosse caduta in mano francese nel 1706, allora il problema si sarebbe risolto alla radice. Torino sarebbe diventata a sua volta Mezzogiorno, della Francia, ma questo era un pensiero che evidentemente non si affacciava. Rimaneva intatto, viceversa, il mito di Pietro Micca salvatore della patria piemontese; era ancora viva cioè la tradizione che voleva il minatore di Andorno decisivo nella soluzione dell’assedio francese a Torino nel 1706. A distanza di due secoli e mezzo.

È curioso che, all’epoca dei fatti, nessuno riconobbe la morte di Pietro Micca come fattore decisivo: tutti tributarono grandi meriti a Vittorio Amedeo II, duca di Savoia, che con accorte alleanze aveva saputo condurre il Piemonte sabaudo contro le armate di Luigi XIV; e celebrarono il principe Eugenio che, alla guida delle armate imperiali, era corso da Vienna a Torino giusto in tempo per evitare il peggio. Grandi lodi furono cantate ai Torinesi, che avevano saputo resistere alla stretta dell’assedio con ordine, pazienza, abnegazione e sacrificio personale: avevano provveduto all’ammasso dei generi alimentari senza sprechi, senza far lievitare i prezzi; avevano spesso pagato di tasca propria per far fronte ai costi immensi della guerra; avevano diligentemente evacuato le zone più esposte ai bombardamenti francesi, stringendosi nelle case più lontane dai tiri d’artiglieria; avevano accettato di formare una milizia cittadina in appoggio alla guarnigione a difesa della città. Insomma, si erano comportati esemplarmente. E poi si riconobbe la valentìa delle truppe piemontesi e la sagacia dei comandanti.

Pietro Micca, lì per lì, rimase fra coloro che persero la vita come prezzo inevitabile di una guerra; anche se, nella fattispecie, l’episodio di cui era stato protagonista aveva avuto qualche rilievo, impedendo a una avanguardia di francesi di penetrare nella cittadella della città. Ma nulla di più. Peraltro, nessuno parlava esplicitamente di sacrificio, perché era difficile stabilire - allora come ora - se Micca avesse acceso la miccia consapevole di rischiare la vita oppure confidando di potersi riparare in tempo. Incidente o martirio, imprudenza o eroismo, la morte di un minatore, di una «talpa», non fece grande notizia. In un assedio, la parte del leone la facevano loro, i minatori, che scavano indefessamente gallerie di mina e di contromina, allo scopo di farsi saltare in aria vicendevolmente: gli assedianti per aprirsi un varco di accesso alla città, gli assediati per respingere il nemico e fermarlo prima che arrivi ai bastioni.

Vi è anche da considerare che, nell’apparato militare sabaudo, di tradizioni robuste fin dai tempi di Emanuele Filiberto, aveva un certo peso un pregiudizio sfavorevole nei confronti degli artiglieri e di tutti coloro che svolgevano mansioni «operaie» collegate alla logistica, al genio, all’architettura e all’ingegneria militari. Queste persone, per quanto indossassero un’uniforme, era considerate accessorie e lontane dall’ethos cavalleresco così gelosamente interpretato dagli aristocratici che occupavano, di fatto, tutte le piazze di comando dell’armata piemontese. L’arte della guerra era l’unica attività che si confacesse a un nobile, mentre qualunque altra funzione che richiedesse studio o applicazione tecnica, per non dire manuale, era considerata ars mecanica, cioè qualcosa di molto lontano dalla nobiltà, da una condizione che si riteneva trasmessa col lignaggio, col sangue, irraggiungibile con altri mezzi. Dunque, anche all’interno dell’esercito vigeva una gerarchia secondo la quale la cavalleria era l’arma che più si confaceva alla condizione aristocratica, quindi seguivano le fanterie e in ultima posizione - possibilmente in ruoli difensivi, sugli spalti delle fortezze, ma senza alcun peso su un campo di battaglia - le artiglierie. Era una questione ideologica, profondamente radicata, esemplare della gerarchia sociale e culturale della società sabauda.

Nel corso del Settecento, pur sempre isolati e residuali nell’armata sabauda, gli artiglieri si sarebbero applicati a studi importanti di fisica e chimica, di architettura e ingegneria. Ma i nobili in uniforme non ne vollero sapere: di conseguenza, tutte quelle esperienze scientifiche rifluirono nella vita civile, fornendo conoscenze e macchinari alle prime industrie tessili e meccaniche piemontesi. Verso la fine del secolo, negli anni 80, quel nucleo di artiglieri, con la protezione di Vittorio Amedeo III, fondò l’Accademia delle Scienze di Torino, diventando un avamposto scientifico e tecnologico di prima grandezza in Europa. Ininfluente nell’esercito, si trasformò in un centro di ricerca assai utile per lo sviluppo del settore industriale.

Intanto, era passato un secolo dall’assedio di Torino e nuove prospettive politiche portavano il Piemonte a guardare all’Italia. Fu in quel giro d’anni che venne riscoperto Pietro Micca, considerato allora come l’antesignano di una resistenza alla Francia e un protomartire della causa risorgimentale italiana. Oltre che la figura esemplare di un gesto eroico che prescindeva dalla nobiltà dei natali. Questo ritratto popolare traversò indenne l’Ottocento e il Novecento. E oggi possiamo ben dire che non fu colpa, ma merito di Pietro Micca e dei suoi colleghi artiglieri, se Torino divenne il centro scientifico e tecnologico più importante d’Italia e la sede della più rinomata industria metalmeccanica italiana.

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